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Una storia negata, la Prima Guerra Mondiale e la morte sul lavoro in “La fabbrica delle ragazze” di Ilaria Rossetti

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La fabbrica delle ragazze
di Ilaria Rossetti
Bompiani, gennaio 2024

pp. 305
€ 19 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)

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Quelle vite spazzate via non si possono dimenticare, non valgono meno di una guerra. (p. 224)

Era il 7 giugno del 1918 quando un boato investì il piccolo paese di Castellazzo di Bollate, in provincia di Milano: nella fabbrica Sutter & Thévnot era avvenuta un’esplosione. Parte da questo tragico fatto il romanzo La fabbrica delle ragazze di Ilaria Rossetti: una storia della quale conosciamo ancora poco ma che, nel leggerla, ho ritrovato di triste e sconcertante attualità.

Emilia Minora aveva poco più di quindici anni quando ha iniziato a lavorare presso lo stabilimento. I Minora erano una famiglia come tante nella campagna bollatese; il padre, Martino, era un agricoltore che insieme alla moglie, Teresa, cercava di sbarcare il lunario: tra campi da coltivare e bestie da accudire, la loro vita sembrava scorrere senza grandi intoppi, nonostante che da qualche anno fosse scoppiata la Prima Guerra Mondiale. Convinti dal parroco - soprattutto il padre, che sembrava essere poco propenso a lasciar andare la figlia -, i genitori decisero di mandare Emilia a lavorare presso la Sutter. D’altra parte, la paga e le condizioni di lavoro sembravano essere sicuramente più vantaggiose rispetto al lavoro in campagna. Inoltre, l'azienda era conosciuta a livello mondiale come un centro di munizioni, nel quale centinaia di ragazze (le più grandi avevano poco più che trent’anni) costruivano bombe, granate e proiettili utili per lo sforzo bellico. E, quindi, quali pericoli poteva correre la giovanissima Emilia e come lei, altre centinaia di ragazze, nel famigerato stabilimento? Eppure, fu proprio lì che Emilia e molte delle sue colleghe trovarono la morte («Eppure era capitato un orrore a cui non erano preparati, dentro la più ordinaria delle quotidianità: andare a lavorare», p. 245).

Per raccontare tutto questo La fabbrica delle ragazze sceglie un punto di vista diverso: quello dei genitori. Da una parte Martino, il padre burbero di Emilia, che, per aver lasciato andare la figlia, si abbandonò al senso di colpa sempre più forte; dall’altra, la madre di Emilia, Teresa, una donna forte e pragmatica che non smise mai di cercare le cause dello scoppio (arriverà a credere a una sorta di sabotaggio da parte degli austriaci) pur di dare un senso alla morte della figlia. Quelle di Martino e Teresa sono due facce della stessa medaglia: un padre che, pur di non rendersi conto della morte della figlia, immaginò la sua vita; una madre disposta a credere all’impossibile per rintracciare il motivo della sua morte. 

E poi c’è il paesino di Castellazzo di Bollate, alle porte di Milano, sconvolto dall’incidente nell’animo e nello spirito: le “vecchie dinamiche paesane” furono spazzate via con lo scoppio in fabbrica, facendo tornare alla luce traumi che fino a quel momento erano stati (consapevolmente o meno) ignorati, come nel caso del brigadiere Drumedari. Il giovane carabiniere, una volta ritornato dal fronte, si dimostrò fanatico, convintissimo che la guerra fosse giusta, concentrando tutti i suoi sforzi contro i disertori. E quindi se da una parte c’è la morte sul lavoro con la storia di Emilia (e non solo), dall’altra ci sono la guerra e tutti i suoi punti di vista: da quello del brigadiere, che appare profondamente convinto della “causa bellica”, a quello dei disertori che scapparono dal fronte, pur sapendo di rischiare la pena capitale.

Togliere un ideale a un uomo è come strappargli l’anima. Per cui non riesce a comprendere quella gioia animalesca nelle strade. La gente non ha capito che domani sarà ancora più dura. (p. 131)

La fabbrica delle ragazze di Ilaria Rossetti è il racconto di una storia negata che, però, ritrova nelle parole dell’autrice il senso di ricordo e di dignità che dal 1918 è stato comunemente ignorato, se non nelle parole di Ernest Hemingway. Il poeta americano, infatti, era volontario a Milano quando avvenne l’esplosione e fu mandato proprio in soccorso delle vittime; a quei momenti drammatici dedicò il racconto Una storia naturale dei defunti, oggi contenuto ne I Quarantanove racconti. Ilaria Rossetti riavvolge i fili della memoria, facendo apparire sullo schermo della Storia l’incidente, la guerra e, trasversalmente, un’Italia diversa, quella dei paesi in campagna dove una mano stringeva l’altra. 

La fabbrica delle ragazze è un romanzo complesso e stratificato perché, oltre all’incidente e alla guerra, ci sono i rapporti umani: quanto costò collettivamente quell’esplosione alla vita del paese? E quanto singolarmente alla vita di ogni abitante?

[...] l’Italia festeggia la fine della guerra, cessasse di produrre granate, bombe, proiettili, polvere da sparo come se nulla fosse accaduto, come se quelle ragazze non fossero saltate in aria. (p. 135)

L’autrice racconta una storia di traumi, dolore, perdita (morale e fisica), e lo fa con una sensibilità narrativa rara, che trova nella sintassi e nella scelta lessicale (con un accenno di dialetto) il perfetto accompagnamento. I luoghi assumono un valore primario tanto forte quanto quello delle vite delle vittime: c’è un prima e c'è un dopo quel 7 giugno del 1918. E allora, non rimane che riflettere sulle parole della madre di Emilia: «Non si può andare al lavoro come si va alla guerra, non si può finire ammazzati per portare a casa il pane» (p. 225).

Giada Marzocchi